Sull’utilità, l’efficacia e il funzionamento della App-Immuni infuria la polemica tra esperti e cittadini. Insomma è l’argomento del giorno. Sopratutto a Verona, una delle città più colpite d’Italia. Ci si chiede a cosa serve l’App se non sarà obbligatoria, poi è già saltata l’ipotesi di punire chi non la installa. Pare, ma non è certo, che potrebbero esserci degli incentivi e se non sarà almeno sul 60% dei telefoni non servirà a molto. Sull’argomento abbiamo intervistato Diego Perini, avvocato, esperto in privacy e tutela della proprietà intellettuale su internet, cyber law ed e-commerce.
Facciamo un po’ chiarezza, come funziona l’App Immuni di cui tanto si sta parlando in questi giorni? L’App individuata dal Governo consente di ottenere un tracciamento di prossimità di chi ha contratto il Covid19, in modo tale da tracciare il virus e poterlo tenere sotto controllo. L’App è costituita essenzialmente da due parti: una dedicata al contact tracing, ovvero il tracciamento basato su tecnologia Bluetooth che permette allo smartphone di riconoscere gli altri cellulari, e l’altra dedicata al diario clinico, ossia un registro in cui l’utente può inserire il proprio stato di salute ed eventualmente la comparsa di sintomi compatibili con il Covid 19. Qualora un utente risultasse positivo al Covid 19, si potranno tracciare tutti i contatti avuti nei giorni precedenti; sarà un algoritmo a valutare il rischio contagio e a consentire di stilare un elenco di utenti da avvertire tramite smartphone. Per contro, nessuna forma di geolocalizzazione è prevista, come auspicato anche dal nostro Garante.
Ma l’uso di questa app sarà obbligatoria per tutti i cittadini? No, il suo utilizzo sarà su base volontaria. Tuttavia dal momento che la sua efficacia è vincolata al raggiungimento della soglia del 60% di adesioni, il Governo pensa già a forme “forzate” di incentivazione collegate ad esempio a limitazioni negli spostamenti per chi non scaricherà l’app o, ancor peggio, a braccialetti elettronici. In sostanza è come se ci dicessero, “caro cittadino se vuoi uscire e goderti un pò di libertà devi scaricare l’app, altrimenti non potrai muoverti da casa”. Questo probabilmente perché l’applicazione gemella, utilizzata dal governo di Singapore sempre su base volontaria, si è rivelata un grande flop, considerato che solo il 18% della popolazione l’ha scaricata e di questi solo il 50% l’ha poi effettivamente attivata. Il fatto poi di voler forzare la popolazione al suo utilizzo è abbastanza inquietante; provocatoriamente potremmo dire che è un modo per eludere i principi cardini della normativa privacy, per i quali il consenso fornito dall’interessato deve essere sempre libero e privo di condizionamenti. Se così fosse, sarebbe grave, considerato che si tratterebbe di quello stesso Stato che (giustamente) impone alle nostre aziende e ai nostri professionisti di adeguarsi al GDPR, pena elevate sanzioni.
Si è detto che i dati raccolti saranno anonimi. È vero? Non esattamente. Spesso sentiamo dire che i dati trattati saranno “anonimi”, ma questo non è corretto e rischia di ingannare i cittadini. Si parla di un codice identificativo univoco, quindi di un vero e proprio dato personale, forse pseudonimizzato ma non certo anonimo. Ormai tutti sappiamo che non è necessario conoscere nome e cognome di una persona per poterla identificare, basti pensare alle immagini dei sistemi di videosorveglianza.
Quindi l’app immuni è pericolosa per la nostra privacy? Guardi, ad oggi sono ancora troppi i dubbi sull’effettivo funzionamento dell’applicazione. Chi raccoglierà e tratterà questi dati? Ci sono finalità non ancora conosciute legate al suo utilizzo, tali da far pensare alle “derive tecnologiche” paventate dal compianto Prof. Rodotà? Chi avrà accesso ai dati e a quali soggetti verranno ceduti? I nostri dati, come si legge, saranno veramente dislocati in un unico server, quindi soggetti ad un maggior rischio se attaccati dagli hacker? Di certo l’affidabilità della nostra Pubblica Amministrazione sul fronte della protezione dei dati sensibili non ci lascia tranquilli, come ci insegna il recente incidente informatico che ha colpito il sito dell’Inps e che ha messo a nudo tutta la fragilità dell’infrastruttura tecnologica del nostro Paese. Detto questo non stiamo certo dicendo che il diritto alla salute sia meno importante della privacy ma più semplicemente che non c’è motivo alcuno di dover scegliere tra diritti di pari rango, soprattutto quando non sono in conflitto tra loro. Lo stesso Comitato dei Garanti Europei (EDPB) ha ricordato che le norme sulla protezione dei dati personali non ostacolano le misure implementate nella lotta alla diffusione della pandemia; tutto sta nell’applicarne correttamente i principi, in totale trasparenza.
Un suo giudizio conclusivo? Mi permetta una provocazione. Il problema vero della nuova app non è tanto e solo il rispetto della privacy dei cittadini che la vorranno utilizzare ma ancor prima il fatto che per funzionare necessita di una verifica su larga scala circa lo stato di salute della popolazione, che potrà avvenire solo con un impiego massivo di tamponi. Ad oggi in Italia manca questo presupposto e quindi l’app, allo stato, non è di alcuna utilità. Senza considerare che, come ha ricordato il Garante, un trattamento di tali dati necessiterebbe di una norma di rango primario e quindi di un intervento legislativo ad hoc. Sotto questo aspetto, si ha nuovamente l’impressione, come già successo con altri provvedimenti governativi, che si vogliano affrontare le questioni partendo dal tetto anziché dalle fondamenta.